“Di tutto ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.
Una citazione che vale sempre. L’ha scritta davvero* Wittgenstein nelle citatissimo (ma quanto davvero letto?) “Tractatus”.
Sul tacere siamo d’accordo: un bel tacer non fu mai scritto. Sempre vero. Ma sul resto uno dice: di cosa “non si può parlare”? Chi stabilisce quando e come di un certo argomento si può o non si può parlare? E la libertà di parola dove la mettiamo? Ebbene, in realtà esistono cose di cui si “deve tacere”, e sono quelle con cui non possiamo davvero empatizzare. Quelle cose che riguardano l’imponderabile, in quel buco nero che è l’animo umano.
Mollare tutto, aussteigen (“scendere in corsa”, come ho scoperto che dicono i tedeschi, grazie a questo pezzo di incommensurabile cristallina bellezza del nostro Elefantino) rientra tra i fatti della vita su cui andrebbe solo steso un velo (meglio se pietoso).
Sulle scelte di abbandono non ci sarebbe molto da dire. Nelle ultime settimane tutti ci siamo molto emozionati sulle dimissioni delle Premier neozelandese, tutti in preda all’afasia di chi non si capacita di come sia potuto accadere. E anche lì, non ci sarebbe molto da dire. Non ci sarebbe e non c’è effettivamente niente da dire, ma siccome sono settimane che mi ci arrovello, lo dico lo stesso.
Primo disclaimer: ultimamente mi è toccato avere a che fare da vicino con un caso di resignation, come si dice. Rassegnazione suona bene, in italiano, con questa idea (ravanando nell’etimo) del “rompere un sigillo”, rompere un patto. Curioso che da noi si usi l’espressione “rassegnare le dimissioni”, che - detta in inglese - suonerebbe come una ripetizione, tipo “resign the resignation”. Ma elucubrazioni linguistiche a parte: mi sono scottato con una vicenda di dimissioni e la razionalizzazione di questo fatto (come si dice: “inspiegabile”) non cessa di tormentarmi.
Personal, best.
Parto da qua: le questioni personali non possono essere discusse, e ci mancherebbe. Dogma che ci ricorda che ognuno è accountable fino a prova contraria, cioè fino a quando non si assume appunto la responsabilità di non esserlo più. Quindi, andando oltre, mi concentrerei su alcune suggestioni organizzative.
La prima, di sfondo. Oggi dimettersi è cool. Fa. Esiste un discorso sempre più insistente e pervasivo che alimenta e sostiene l’idea secondo cui alzare bandiera bianca è giusto. È la falsa coscienza che ci parla, e mentre ci fa alzare sempre più l’asticella della performance, contestualmente ci fornisce l’alibi per auto-eliminarci. Nella retorica dell’endurance (accento sulla u, mi raccomando) ci sta non durare.
Ed è così che la desistenza diventa solo un twist della resistenza.
Non ne ho le prove che sia così, solo tracce.
Una di queste mi viene da un mondo che frequento con scarsi risultati: il trail running. Di moda anche quello. Insomma, nel trail (specie nella versione ultra) da tempo osservo il fenomeno che chiameremo dell’abbandono ‘compiaciuto’. Strava, l’app usata da buona parte degli atleti (pro o amatori) dediti agli sport di resistenza, è un osservatorio privilegiatissimo di quella fenomenologia che un osservatore precisissimo come Peter Sloterdijk definisce la “tensione verticale”: l’allenamento. Bene, su Strava, durante la stagione, è un florilegio di status (attività) che portano un titolo oscuro ai più: DNF. Che sta per “did not finish”, non ho finito la gara, non l’ho portata a termine. Un po’, sicuramente, è il sottile piacere di usare un acronimo, con tutto il suo intrinseco alone di mistero. Un po’ perché fa sentire eroi, con la possibilità di raccogliere comunque tanti Kudos quanti se ne sarebbero raccolti chiudendo la gara.
Fatto sta: non finire è un fatto di cui vantarsi. Lo si maschera da atto di eroismo. In realtà, si abbandona quando si capisce di non poter vincere. O quando non ci si vuole esporre al giudizio di chi valuterebbe la prestazione disonorevole. Meglio mollare che peggiorare il proprio personal best. Detto in altri termini: se non possiamo essere best, meglio passare per worst.
Homo (de)ludens.
La seconda suggestione viene dall’idea secondo cui molto di ciò che facciamo contiene una parte di gioco. O meglio: ogni atto in cui riversiamo le nostre competenze si trasforma in gioco. Fare politica, vendere, organizzare, sono tutti ‘giochi’ in cui sublimiamo la nostra aggressività, la nostra componente ferina traducendola in atti simbolici controllati. E in questa finzione tutto si tiene, ognuno gioca la sua parte (da notare che in inglese to play significa sia giocare come lo intendiamo in italiano che recitare una parte). Il gioco nell’interazione sociale (politica, organizzativa) espone a un grande rischio: la personalizzazione della (appunto) parte. Espone al rischio di farsi carico dei problemi del mondo oppure, cosa più insidiosa, di ‘contare sugli altri’. E quando gli altri decidono di non giocare più, come eterni bambini, restiamo delusi.
Ancora una volta ci viene in aiuto il significato intimo delle parole: de-ludere = smettere di giocare. Subire l’abbandono di chi sta giocando con noi ci annichilisce. E sì, tutto può essere ritualizzato, gestito, ingegnerizzato all’interno di meccanismi di governance evoluti e evolutivi (come nel caso dell’Holacracy, di cui parleremo - leggiti questa per un’infarinatura) ma la mia sensazione è che no, non ci libereremo facilmente dell’emotività. Forse restiamo delusi perché abbiamo una disfunzione all’insula cerebrale. Qualche neurologo in ascolto?
Flow.
Chiarito - più o meno - che con gli altri bisogna imparare ad avere a che fare (ma dai), forse c’è una sintesi hegeliana possibile tra il mollare e il subire l’abbandono, tra chi è attivo e chi passivo nell’arte della rassegnazione, tra la dittatura della resistenza e quella della desistenza (come abbiamo visto, due facce della medesima medaglia). E la sintesi va cercata nel flow.
C’è un momento magico che accade come sintesi imperscrutabile, emergente, non sommatoria, non ricetta replicabile, di padronanza nello svolgere un compito e grado di difficoltà dello stesso. Una sintesi difficile da trattenere, un po’ come il ‘tempo’ per Sant’Agostino. Parafrasandolo: «se nessuno mi chiede cos’è il flow, lo so; se cerco di spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». Che significa: mentre ci sono dentro, lo so, ma quando finisce non lo so più. Essere nel flow significa ‘stare bene’ estraniandosi dal mondo circostante. Significa sorprendersi a osservarsi dall’alto nell’atto di svolgere un compito. Uno stato che, ancora, nell’endurance - quindi: nel durare in un esercizio qualsiasi - può capitare di esperire. È raro, e quando succede è una grazia.
Quando succede chi lo vive si sente nel posto giusto. Non vorrebbe essere altrove. Ed è chiaro: non parliamo di uno stato alterato di coscienza ma, al contrario, di uno stato di sublime auto-coscienza, di centratura perfetta (isomorfica?) tra identità e contesto. Sentirsi nel flow - o meglio: esserci - è quanto di più appagante possa capitare.
Ed è quindi forse lì che va cercata la forma più utile di gestione delle persone nell’organizzazione: quella di un sistema di management che si occupa di creare continuamente le condizioni affinché chi lavora stia nel flusso. Un flusso che da individuale si fa collettivo, canalizzando le energie verso quei purpose che, senza un committment profondo di ciascuno/a, restano solo belle parole.
Torniamo al buon Csikszentmihalyi, che l’ha teorizzato ancora nel 1975. Prendiamoci cura dell’esperienza di chi lavora con noi. Progettiamo la UX del lavoro.
Servono flow manager.
Titoli di coda
Ultimamente sono in fissa con questo clavicembalista francese. La sua aria delle Goldberg è da panico**.
*metà delle quotes famosissime che imperversano nell’internet in realtà non sono mai state dette.
**quell’altro pezzo come colonna sonora era troppo scontato.
Non a caso si celebra il proprio status DNF in una dimensione sociale, per trasformarlo nell'aver avuto la forza di ammettere di non farcela. Non mi tolgo dalla testa che sia pure questo un portato della cultura statunitense che capitalizza su tutto, basta pensare a come la salute mentale (privata) diventa un fatto pubblico. Che per evitare la stigmatizzazione va anche bene ma che non smette di farmi torcere il naso quando un megamanager va in burnout, sta depresso 6 mesi, torna in forma e... ci scrive sopra un libro. O forse sono solo infastidito da quest'eccesso di personalizzazione di cui il flow - come tu giustamente dici - è l'opposto: è un perdersi per essere paradossalmente molto centrati, è un guardarsi da molto distante, dimenticandoci del noi che è un abito sociale e non la nostra vera essenza. Il flow è lo stato di grazia ed è una delle attività più sublimemente egoistiche (ne godiamo solo noi, non riusciamo a dirla agli altri - per fortuna).
Tutto bellissimo ma direi che "la forma più utile di gestione delle persone nell'organizzazione", se parliamo di organizzazione sul mercato, è di realizzare un business model sostenibile, dunque molto contestuale e, a volte, direi spesso, non è questione di flow.
Se poi allora rompiamo il frame della organizzazione industriale, allora la responsabilità di cercare il flow temo torni di responsabilità della persona come integrata nel suo contesto relazionale e ambientale.
Dunque forse vale la pena di pensare a cosa può restituirci la "libertà di prenderci cura" come dice Indy Johar, più che pensare che possiamo creare organizzazioni in grado di dare alle persone un non precisato flow. O no?