Parrà sicuramente abduttivo, cioè, un collegamento tra concetti abbastanza randomici che poco c’azzeccano l’uno con l’altro. Sembrerà in altre parole un “processo a ritroso che si impiega quando si conoscono regole e conclusione e si vogliono ricostruire le premesse”, come dice l’internet, fatto sta, anche stavolta ho trovato nel cuore profondo delle parole una chiave. Di lettura del reale. Che in quanto tale, hegelianamente, è razionale.
Le parole, o meglio la parola è ingenuità, letta come parola italiana e inglese. In italiano, “di persona, sentimento, espressione e sim., che conservano l'innocenza e il candore nativi”, spesso con connotazione negativa. In inglese, “the skill of thinking, performing, or using things in new ways, esp. to solve problems: With a little ingenuity, meals can be tasty as well as inexpensive”.
La radice è la stessa: il genus, la generazione, da un lato nel senso della nascita (in pratica: essere come si è nati), dall’altro ingenium sta per ‘disposizione naturale, carattere, indole’, ma anche ‘intelligenza, acume’ e ‘ispirazione, trovata’. Composto da in- ‘dentro’ e da un derivato del verbo gignere ‘generare’ (vedi onnipresente riferimento).
E andando appunto a ritroso, complice l’ascolto (solo in corsa) del bestseller di Rick Rubin sull’atto creativo, e complice anche un colloquio psicoterapeutico dal quale sono uscito pensando “mi sento come un bambino”, ho trovato poetico (cioè, ancora, generativo, appunto: creativo) pensare all’intelligenza manageriale come essenzialmente fatta di candore.
Niente di nuovo, l’ha già detto prima di me Kim Scott nel suo Radical candor, in cui il candore radicale viene posto alla base della capacità di performare, che detto bene può appunto essere tradotto ‘capacità di risolvere ingegnosamente i problemi.
Dice questo articolo di HBR che tutto (non proprio tutto, molto) si gioca su questo crinale, nella valutazione della “performance of American corporate leaders”:
“whether people who need to communicate upward are able to do so honestly; whether teams are able to challenge their own assumptions openly; and whether boards of directors are able to communicate important messages to the company’s leadership”
L’umanità al centro. L’umanocrazia non come alternativa alla burocrazia che ci appare come destino segnato e inesorabile. Che è il principio che proviamo a seguire tenendo un profilo ingenuo alla trasparenza, dicendo tutto a tutti, tenendo la porta aperta, evitando di chiuderci nella torre d’avorio, mescolando i registri, parlando in un blend di riferimenti alti mescolati al gergo, non artatamente ma senza filtri, rischiando anche di sputtanarci e continuamente accorgendoci che non possiamo farne a meno di mostrare il nostro lato più fragile, intimo, fallibile, in una parola - appunto - umano.
Dovremmo rileggere Candido di Voltaire: “Io sono quello che definisco uno spirito errante per le passioni d’altri; ovvero un imbecille”. Chi fa il mestiere di consulente lo sa bene: viviamo delle passioni altrui, come a suo tempo con il solito acume intuì
(in questo memorabile articolo di più di dieci anni fa).Impostare su queste basi l’atto creativo è la sfida. Immaginare che solo la purezza possa partorire una stella danzante negli altri, che una presenza aperta possa generare collettivi organizzati aperti (come quelli raccontati da Alberto Gangemi nell’omonimo fondamentale trattato). Il tempo del comandare è fottere è finito. L’ora dell’organizzazione ingenua è giunta.